Negli anni ‘80 e ‘90, le sale giochi erano il paradiso per chi amava i videogiochi. Ogni settimana spuntavano nuovi titoli, e i cabinati attiravano schiere di ragazzi pronti a spendere le loro 200 lire per una partita. Ma non tutti i giochi che trovavi nelle sale erano originali: esisteva un mercato parallelo di giochi clonati, noti come bootleg. Ti sei mai chiesto come funzionava questo sistema? E perché in Italia questi giochi erano così diffusi?
Il business dei giochi clonati
All’inizio degli anni ‘80, i cabinati arcade non avevano alcun tipo di protezione. Le ROM – ovvero i file che contenevano i dati del gioco – erano facilmente accessibili e copiabili. Chi aveva un minimo di competenza tecnica poteva clonare un gioco e installarlo su un altro hardware compatibile.

Le copie non venivano solo da pirati sconosciuti, ma anche da aziende minori che cercavano di cavalcare l’onda del successo di certi titoli. In paesi come l’Italia, dove importare i giochi originali era costoso e lento, i bootleg erano spesso l’unico modo per giocare ai titoli più famosi senza dover attendere mesi.
Perché i bootleg erano così diffusi?
C’era un motivo molto semplice: costavano meno. Un cabinato con un gioco originale aveva un prezzo elevato, mentre le copie erano molto più economiche e facilmente reperibili. Questo portò a un vero e proprio mercato parallelo, con noleggiatori e gestori di sale giochi che preferivano le versioni non ufficiali perché garantivano guadagni più alti e tempi di consegna rapidi.
Ma non tutti i bootleg erano uguali. Alcuni avevano glitch grafici, audio scadente o problemi di fluidità, mentre altri erano così ben fatti da essere indistinguibili dagli originali, se non per il nome modificato o qualche dettaglio estetico diverso.
La reazione delle case di sviluppo
Ovviamente, le aziende produttrici di videogiochi non potevano stare a guardare. Per contrastare la pirateria, iniziarono a sviluppare sistemi di protezione sempre più avanzati. La prima mossa fu criptare le ROM, rendendo più difficile l’accesso ai dati di gioco. Poi arrivarono chip speciali, come lo Slapstick di Atari, che bloccavano il funzionamento del gioco se veniva copiato su una scheda non originale.

Ma la vera rivoluzione arrivò negli anni ‘90 con l’uso delle batterie suicide. Aziende come Capcom e Sega introdussero schede arcade con una memoria RAM volatile, che conservava le chiavi di decrittazione necessarie per far girare il gioco. Se la batteria si esauriva, il gioco diventava inutilizzabile. Questo sistema rese quasi impossibile la clonazione, ma aveva un grosso problema: dopo 5-6 anni, anche i giochi originali rischiavano di diventare inservibili.
La svolta tecnologica e la fine dei bootleg
Nonostante tutte le protezioni, i ricercatori indipendenti trovarono comunque modi per aggirare i blocchi. Nei primi anni 2000, alcuni sviluppatori riuscirono a decriptare le ROM dei giochi protetti, permettendo il recupero di molte schede arcade date per perse. Il progetto MAME (Multiple Arcade Machine Emulator) giocò un ruolo fondamentale in questo processo, permettendo di preservare migliaia di giochi che altrimenti sarebbero scomparsi per sempre.
Oggi il fenomeno dei bootleg arcade è solo un ricordo del passato. Con l’arrivo delle console domestiche e dei giochi digitali, il mercato dei cabinati è scomparso quasi del tutto. Tuttavia, per chi ha vissuto quegli anni, resta il fascino di un’epoca in cui, senza internet e senza emulatori, l’unico modo per giocare a certi titoli era infilare una moneta in un cabinato, senza sapere se fosse un originale o una copia.
Tu hai mai giocato a un bootleg senza saperlo? Raccontaci la tua esperienza nei commenti e seguici sui social per altri racconti del mondo del gaming!